Riflessioni sul calo dei censiti nella nostra Regione
A cura di Pierfrancesco Nonis
Approcciarsi al delicato tema del calo dei censiti non è semplice per vari motivi. Non vi sono in merito indagini nazionali recenti da cui attingere: l’ultima, riguardo i motivi dell’abbandono, è stata condotta nella seconda metà degli anni Novanta. Da allora, gli archivi Agesci lo confermano, è stato stilato un solo Report nel 2009. L’Associazione, come si nota dai “bilanci di missione” fornisce unicamente dati riguardanti incrementi e decrescite, che non permettono di identificare l’insorgenza di eventuali problemi strutturali. Ad esempio, sappiamo che almeno fino alla metà degli anni Novanta l’incremento era di circa 5.000 soci l’anno, ma non sappiamo perché, al contempo, ben 35.000 giovani lasciavano l’Agesci.
In Regione, stiamo vivendo da qualche anno una flessione del numero dei censiti, anche se non omogenea nelle varie Zone. Basti ricordare come negli ultimi dieci anni siano stati sciolti 8 Gruppi.
Ciò che balza all’occhio visionando i censimenti regionali degli ultimi dieci anni è la netta flessione dei censiti nella Branca L/C. Se nel 2011 i lupetti e le coccinelle erano 1586, nel 2020 erano scesi a 1372; mentre nel 2021, primo censimento post pandemia, si erano registrate “solo” 1244 adesioni. Anche gli esploratori e le guide risentono di questo calo, ma con valori che differiscono molto nelle Zone. Nota positiva sono la quota di circa 700 rover e scolte che nell’ultimo decennio si è complessivamente mantenuta costante.
Il territorio
Anche se la riduzione del numero di censimenti L/C desta quanto meno il sospetto che il mondo scout non sia più un ambiente abbastanza attrattivo per i bambini, credo invece che una possibile risposta vada cercata analizzando meglio i nostri territori. Questi vanno letti anche e soprattutto con l’aiuto delle altre realtà associative e istituzionali. Occorre comprenderne il tessuto sociale, i bisogni, le mancanze, le ferite: dobbiamo essere noi a cercare i ragazzi e invitarli, non aspettare che mamma e papà li iscrivano agli scout. Nel nostro attendere, nel chiuderci nelle sedi c’è il germe di uno scautismo che sta abbandonando le strade e le borgate chiudendosi in sé stesso?
Nella sopracitata indagine degli anni Novanta, il professor Bernardo Cattarinussi, a proposito della perdita d’identità territoriale dopo il sisma del ’76, osservava: «ora però che la ricostruzione (fortunatamente) appare conclusa con successo, sorge, paradossalmente, un nuovo problema: quell’identità-scout, che si era plasmata in un rapporto così stretto col territorio, nell’attuale periodo “normalizzato” sembra “spaesata” e alla ricerca di nuovi motivi d’impegno». Rileggiamolo come un motivo in più per mettere al centro le nostre Zone che – specialmente dopo la riforma “Leonardo” – sono tali proprio perché che condividono un medesimo tessuto socioeconomico e culturale. Riappropriarsi di una identità territoriale fatta di problemi e difficoltà comuni può, col confronto, portare anche a soluzioni e azioni altrettanto comuni e condivise.
Non è facile essere capi a vent’anni (neanche a trenta)
La nostra epoca stiracchia un po’ tutto, e anche noi capi ne subiamo le inevitabili conseguenze. Ci vuole tempo per laurearsi, per trovare un lavoro, per costruire una famiglia e alle volte si preferisce rinviare il tempo delle scelte. Alle volte si ha l’impressione che la differenza tra un giovane capo e un giovane in Clan sia davvero molto sottile. Cosa distingue allora un capo ventenne da un rover o una scolta tesi alla Partenza? Noi lo sappiamo, ma forse la vera domanda è: cosa cerca un ragazzo e la sua famiglia, in un capo? Probabilmente non principi astratti ma una testimonianza, a prescindere dal “ritardo” con cui un giovane capo compie determinate scelte di vita. I tempi sono cambiati e i capi di oggi, che sono cresciuti con esempi non più attuali, potrebbero rischiare di sentirsi inadeguati al ruolo che ricoprono, poiché si sentono “troppo giovani” e senza le capacità adeguate. Questa incertezza rischia di avere effetti sia sulla qualità dell’offerta alle famiglie, sia sulle disponibilità offerte dai capi. Che le comunità capi continuino a riflettere sul percorso che i capi fanno una volta diventati educatori: un percorso di tirocinio stabile, un progetto di crescita adeguato a ciascuno, una comunità accogliente che pratica lo scautismo e non si riunisce solo per dovere.
Il tema del calo dei censiti è senz’altro più complesso e credo che un’analisi seria non possa prescindere da un’accurata indagine sulle cause a livello regionale, da una riflessione da parte delle Zone e dall’apporto di tutti i Gruppi. Tutto questo, però, solo se prendiamo coscienza della portata del problema. Perché non iniziamo tutti a guardare oltre il nostro orticello?
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Fotografia Patrizia Geremia