Intervista a don Pierluigi Di Piazza Parroco di Zugliano
a cura di Sebastiano Fogolin
Un prezioso contributo di don Pierluigi Di Piazza, fondatore e Presidente del “Centro di accoglienza e promozione culturale Ernesto Balducci” di Zugliano.
Don Pierluigi, abbiamo pensato a lei perché, dal suo punto di osservazione, ci piacerebbe ricevere qualche stimolo come cristiani, come Associazione, come giovani. Guardando alla Chiesa come corpo e a noi come le membra, da quali attenzioni ripartire, per guardare al futuro con fiducia?
A mio sentire stiamo vivendo una complessità particolarmente intensa. In questa complessità di fatto emerge in modo più nitido, se ce ne fosse stato bisogno, che questo mondo così strutturato è inaccettabile e che con necessità, urgenza, decisione, si deve iniziare la costruzione di un mondo nuovo, radicalmente diverso: si pensi alle inaccettabili disuguaglianze fatte emergere con maggiore evidenza anche dalla pandemia e alla questione dell’ambiente divenuta drammatica e con la scadenza di tempi immediati per risposte significative.
L’impresa è ardua: per questo ogni persona, ogni gruppo, comunità, istituzione sono chiamati a disponibilità, presenza operativa, impegno concreto e quotidiano sentendosi attivamente parte del NOI costruttore di un futuro riconoscibile come umano. La Chiesa ha come sua caratteristica di riconoscibilità la profezia: cioè la denuncia di tutte le situazioni che umiliano e calpestano la dignità delle persone, insieme all’annuncio della strada alternativa.
La Chiesa perde il suo essere se diventa istituzione fra le altre, con una copertura sacrale; se accetta conformismo, passività, inerzia. Se benedice il presente, se non prende posizione. Purtroppo, tanti nella Chiesa non seguono l’insegnamento di papa Francesco e i ritardi sono visibili. L’attenzione, la premura e la cura sono prima e soprattutto per chi è povero, ai margini, per chi per diversi motivi fa fatica nel cammino della vita. Queste persone dovrebbero essere parte del cammino della Chiesa che non dovrebbe agire per loro, ma insieme a loro.
Come scout e giovani in generale quale contributo in favore delle nostre comunità vede come prioritario in questa fase di ripartenza?
Il contributo è importante, decisivo. Non vanno rilevati con un compiacimento di facciata, ma come constatazione veritiera la profonda sensibilità, l’intelligenza, la disponibilità dei giovani su diversi aspetti e importanti questioni: si pensi all’esteso movimento per l’ambiente, ai progetti per la pace, all’impegno per la giustizia, contro la corruzione e le mafie, alla presenza in diverse organizzazioni di volontariato.
Si possono insieme notare le capacità nell’utilizzo positivo e costruttivo dei nuovi mezzi di comunicazione di cui sono abili gestori per iniziative di significato umanitario, per quel nuovo umanesimo così necessario che mette al centro la dignità delle persone, le relazioni, la profondità del sentire e la bontà dell’agire, praticando concretamente il bene.
Nei nostri territori, quali sono le situazioni di maggior difficoltà, delle quali dovremmo tutti prenderci carico?
L’attenzione, come già accennavo, dovrebbe essere rivolta in modo costante alle persone, in particolare a quelle in difficoltà, accorgendosi delle storie non solo ai margini, ma anche nascoste, dimenticate. Si percepisce come molte persone soffrano interiormente e siano sole in queste tribolazioni. Sarebbe importante poter favorire, insieme agli incontri personali, luoghi, ambiti di accoglienza, di ascolto e di dialogo.
L’individualismo che facilmente si diffonde può facilmente diventare solitudine negativa. Ce n’è anche una positiva: quella che si ricerca per rientrare in noi stessi, scrutarci in modo veritiero, curare la nostra interiorità. Quella negativa all’opposto si avverte come estromissione, come condanna e pericolosamente può avviarsi alla depressione e all’angoscia. Per questo è fondamentale contribuire a una società di relazioni che inizia da un’accoglienza profonda senza alcuna distinzione, discriminazione, senza pregiudizi o giudizi. È quindi importante sentirci parti attive della costruzione di una società di relazioni positive, significative, umane.
Se dovesse scegliere una parola chiave dalla quale ripartire quale sceglierebbe?
Certamente “I Care” scritto nella piccola aula della straordinaria esperienza della scuola di Barbiana. Per me come uomo, insegnante (lo sono stato per trent’anni) e prete, don Milani è un riferimento fondamentale della mia vita.
L’espressione è il fondamento del nostro sentire la vita, il rapporto con gli altri e il mondo. Dire “Mi sta a cuore, mi interessa, c’entro anche io” è la dimensione spirituale, etica, culturale e politica di fondo. Dal prendersi a cuore consegue il prendersi cura, parola pregnante dei significati umani più profondi: sensibilità, attenzione, accoglienza, ascolto, condivisione, cammino comune, incoraggiamento, sostegno.
“I Care” è stato il motivo guida della sessantasettesima marcia della pace Perugia-Assisi del 10 ottobre scorso. Quindi I Care nel cuore, nella mente, nelle decisioni e azioni.
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Fotografia Dario Cancian