26.09 Confini buoni e confini cattivi

Pensiero associativo

Confini buoni e confini cattivi

Il confine non è necessariamente un male, ma quali proprietà deve avere per consideralo un bene?

A cura di Daniele Boltin

Scavare nel profondo dell’Associazione e puntare i fari sulla complessa rete di relazioni, sul labirinto di confini, sui blocchi monolitici è impresa ardua. Un po’ come aprire il vaso di pandora oppure, avvicinandoci di più a una retorica “scautistica” trovarsi nel bel mezzo di un fitto cespuglio di rovi: ci sono un sacco di spine, ma anche delle ottime more.

Capita piuttosto spesso che a dispetto di quello che si dice o che si sente, in realtà all’interno della nostra Associazione abbiamo dei confini ben tracciati. Sono ben presenti delle strutture che ogni Gruppo ha costruito, rinforzato e personalizzato nel tempo. Ci sono anche tanti campanili che, nonostante tante volontà più o meno dichiarate, sono ancora ben visibili e ognuno con il suo stile unico e particolare. Probabilmente è lo scautismo cattolico in Italia, un mosaico di unicità che parte da alcune macro differenze a seconda delle zone del Paese per arrivare a quelle piccole differenze nel modo di interpretare lo scautismo che creano molte differenze anche tra i Gruppi di una stessa piccola città. Uno stile di vita, lo scautismo, che poi in alcuni casi porta a creare dei confini invisibili anche all’interno delle parrocchie.

Le similitudini in fondo sono parecchie e ci portano anche a inconsapevoli assimilazioni con quello che ormai tutti critichiamo, come la logica del “si è sempre fatto così”. Se ci fermiamo a riflettere a bocce ferme però, solo pochi potrebbero dire di essere veramente refrattari a tutto ciò. Si tende a rimanere all’interno dei propri confini, della zona di comfort, e anche senza costruire muri o alimentare un pensiero conservatore, si creano zone ben definite.

Il cambiamento richiede tempo, e quando viaggia a velocità sostenuta porta con sé delle situazioni che necessitano di correttivi. Pensiamo al mondo che ci circonda, anche alla luce del territorio in cui viviamo: siamo passati dal confine militare a pochi chilometri da casa all’Europa di oggi, dove, nel giro di vent’anni con la libera circolazione di merci e di persone, sono nati dei diritti un tempo impensabili.

Guardando alla società, gli anni che stiamo vivendo hanno visto la globalizzazione del mondo, insieme a quel processo migratorio che confonde i confini dei territori sui quali si orientava la nostra geografia. Usi e costumi si contaminano e, se “etica” vuol dire “costume”, è possibile ipotizzare una fine delle nostre etiche, fondate sulle nozioni di proprietà, territorio e confine, a favore di un’etica che, dissolvendo recinti e certezze, potrebbe configurarsi come un’etica “del viandante” che si appella all’esperienza e all’uso il più possibile esteso e condiviso della ragione.

Se la storia accelera i processi di recente avviati, che sono nel segno della “deterritorializzazione”, potremmo assistere alla nascita di una coscienza collettiva più matura, considerando che l’uomo oggi è sempre più costretto a fare appello a valori nuovi, che trascendono la garanzia finora offerta dalla tradizione, dalla religione, dall’etnia, dal colore della pelle.

Guardando al futuro – e i bambini in questo hanno già moltissimo da farci vedere e da insegnare – se riusciremo a non creare una diga a contenimento dei valori positivi che stanno fiorendo, potremmo vedere un individuo meno focalizzato su se stesso e che guarda sempre di più all’altro. Un percorso che in qualche modo è stato tracciato da cambiamenti di questi ultimi anni e che porterà tutti a fare i conti con la differenza, come un giorno ormai lontano nel tempo, siamo stati costretti a farli con il territorio e la proprietà. La diversità sarà il terreno su cui far crescere le decisioni etiche. Ritorno ai bambini citati poco sopra: loro questa base di ragionamento già ce l’hanno, sta al mondo adulto la sfida di non creare dei binari che rappresentano un salto nel passato.

In questo senso i pericoli sono quelli dialettici che si vedono molto spesso: il porto chiuso, il bastione, l’arroccamento, il confine identitario. Il simbolo del paradigma securitario è il muro. Noi come scout, con visione internazionale vogliamo abbatterli ma in epoca recente questa pulsione ha fatto vincere sovranisti, ha portato alla Brexit, ha creato consenso nella retorica del porto chiuso. Si potrebbe dire che il muro è una patologia del confine; il confine non è necessariamente un male. Ma per essere un valore il confine deve mantenersi poroso, mentre la trasformazione del confine in bastione/fortezza, in gioco oggi, segnala la presenza di una patologia securitaria del confine.

Questi ragionamenti si possono in qualche modo applicare anche ai nostri vissuti, con le dovute proporzioni. Passare dalla retorica ai fatti è probabilmente un esercizio più complicato di quanto può sembrare: l’accettazione e l’accoglienza possono essere difficili da praticare, in particolare in prossimità. A livello associativo le risposte sono sempre scritte da qualche parte. Nei confini che tendiamo a creare tra varie realtà e livelli può bastare riportare a galla le parole che il capo reparto ci ha detto da ragazzi dopo aver recitato la Promessa e fare tesoro della nostra appartenenza alla grande famiglia degli scout.

 

 

Fotografia Marvin Dal Molin